Domenico Pescosolido

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Ho visto “Henri Cartier-Bresson e gli altri” Italia inside out 2

Dopo la prima mostra dedicata a come i fotografi italiani hanno visto e vedono il nostro Paese, arriva a Milano (Palazzo della Ragione fino al 7 febbraio 2016) anche la seconda mostra dedicata a come i fotografi stranieri, a partire da Bresson, hanno visto l’Italia.

La mostra si snoda attraverso sette temi principali: l’Italia, la fotografia “umanista” e altro, la poesia del bianco e nero, dove l’interpretazione diventa un atto d’amore, la nobile tradizione documentaria, lo sguardo inquieto, lo sguardo positivo e infine autoritratto: le possibilità del “racconto si se”.

Ognuna di queste sette aree tematiche raccoglie l’interpretazione di alcuni dei massimi fotografici stranieri che si sono cimentati con il nostro Paese.

Il viaggio parte, forse in modo un po’ retorico, con Cartier-Bresson, ma al contrario di quanto si potrebbe pensare è solo un’introduzione, una visione dell’Italia degli anni ’30 basata sul suo sguardo geometrico e pronto a cogliere l’attimo. Dopo di lui ecco il susseguirsi incalzante di altri grandi della fotografia mondiale Capa, Seymour, Cuchi White e William Klein con le sue immagini tratte dalla Roma degli anni ’50, tanto per citare i primi che si incontrano lungo il percorso fatto di brevi teche dedicate ai fotografi, in un ambiente scuro che mette in risalto la fotografia e la sua forza.

Ogni autore è accompagnato da un breve commento, sulla sua visione o sulla sua tecnica che arricchisce ed incuriosisce. Ad esempio, Klein ci racconta che per lui la città è stata sempre una ricorrente ossessione ed ha cercato il ritmo nelle strade e nei segni, nelle smorfie di chi passava di fronte al suo obiettivo. Con Herbert List apprendiamo che

“non esiste alcuna “ricetta” per i fotografi. Un’opera d’arte può nascere tanto da un’accurata progettazione quanto da una fugace intuizione. Come il buon pittore non tenta di ricreare sulla tela con il suo pennello una riproduzione fotografica, alla stessa stregua il buon fotografo non deve “dipingere” con la propria macchina”.

Man mano che ci addentriamo in questo viaggio attraverso il dedalo scuro del filo conduttore della mostra il bianco e nero viene affiancato dalla sperimentazione e non solo dall’uso del colore. Colpisce ad esempio l’opera di Hiroyuki Masuyama che ricostruisce con le esposizioni multiple la Venezia dipinta da William Turner e l’opera di Abelardo Morell che utilizza il metodo della “Camera Obscura” con cui unisce interni ed esterni.

Al fianco di un’Italia vista con l’occhio del documentarista e con l’occhio dello sperimentatore, troviamo anche il paesaggio delle montagne di Alex Hütte, ma, ci suggerisce la didascalia,

“La fotografia di paesaggio non deve sembrare una cartolina” ha stabilito una volta, con laconica sintesi, Stephen Shore, “essa dunque deve evitare l’ingenuità di una veduta concentrata su stimoli superficiali: il suo obiettivo deve essere non la riproduzione unidimensionale di qualcosa di apparentemente straordinario, ma un’immagine che arriva fino agli strati più profondi, che è in grado di accogliere in se ambiguità e contraddizioni.

Sono queste le maestose montagne di Hütte.

Alla fine della mostra avremo contato 36 autori che, ognuno con il suo linguaggio, ci hanno portato a spasso per l’Italia attraverso la storia e le contraddizioni moderne. Non è una personale per ogni autore e quindi le foto presenti non saranno mai in numero elevato per ogni singolo autore ma in numero consistente a mostrare l’interpretazione data al nostro Paese da quel fotografo.

Dopo la prima mostra sui fotografi italiani, le mie aspettative erano alte per questo secondo capitolo e non sono andate deluse. Se ne esce arricchiti visivamente se si ha la pazienza di guardare con attenzione e indagare la ricerca che è stata fatta dagli autori al di là della semplice fotografia.