L'ignoranza genera fiducia più spesso della conoscenza

"L'ignoranza genera fiducia più spesso della conoscenza", con queste parole Cherles Darwin poneva le basi per una ricerca psicologica che più di un secolo dopo avrebbe fatto identificare a due studiosi, Dunning e Kruger, una distorsione cognitiva che gli valse il Nobel.

L'effetto di Dunning-Kruger in estrema sintesi afferma che meno si è competenti in una materia e più si è portati a sopravvalutare  le proprie conoscenze e quindi a ritenersi molto competenti. La distorsione inversa può avvenire invece in chi, essendo realmente competente, si ritiene scarsamente competente con conseguente perdita di fiducia in se stessi.

Partendo da competenze nel tennis e negli scacchi, gli autori ipotizzarono che le persone inesperte tenderebbero a sovrastimare le proprie abilità, non si renderebbero conto delle effettive capacità degli altri, non si renderebbero conto della propria inadeguatezza e riconoscerebbero la propria mancanza di abilità solo se fossero adeguatamente addestrate in quella pratica.

A cosa porta quest'effetto? E' un male avere un'alta considerazione di se stessi? In effetti pur non essendo necessariamente una patologia ha un grave effetto collaterale perché impedisce di migliorare.

E in campo fotografico esiste questa distorsione? Direi che forse è uno di quei campi in cui si può maggiormente apprezzarne la presenza: in fondo la non conoscenza rende tutti più creativi o per lo meno l'illusione di esserlo.

La diffusione del mezzo fotografico digitale ha portato con se anche l'emulazione di processi analogici che uniti alla facilità con cui oggi è possibile modificare e alterare l'immagine (lo era anche prima ma molto più difficilmente) hanno permesso di scambiare spesso un effetto per arte e creatività con la conseguente mancanza di consapevolezza di chi lo esegue: le persone che ogni giorno applicano un filtro seppia alle loro foto digitali non si chiedono certo cosa sia e magari ignorano anche che si tratta di un procedimento nato in un'epoca in cui la fotografia non era fatta di sequenze numeriche e serviva  per bloccare l'ossidazione dell'argento per rendere più longeva la stampa. Per questa via è ben facile scambiare un effetto ricercato per arte o creatività e perseverare nella propria convinzione.

Ma questo è solo il più lampante degli esempi che si possono trarre usando la fotografia per dimostrare l'esistenza dell'effetto di Dunning-Kruger. In realtà esiste anche un più insidioso livello e cioè la convinzione del fotografo non attento che persevera nella sua convinzione artistica scattando fotografie stereotipate o di maniera, riproducendo all'infinito una Fotografia che non gli appartiene ma che vagamente insegue nel vano tentativo di riprodurre il bello, l'erotico, la vita vissuta o l'essenza dell'oggetto ritratto. 

La capillare diffusione che una fotografia digitale può ottenere oggi attraverso la rete fa nascere ed alimenta l'effetto di Dunning-Kruger. Molto facilmente si può cadere nella tentazione di cercare conferme alla propria arte attraverso i mille Like di qualche social network e così come la rete vede nascere sedicenti esperti di ogni materia anche la Fotografia non ne risulta immune e poco conta se poi si ha poco da dire e raccontare attraverso la fotografia, la pittura, la scrittura ed ogni altra arte di cui ci si ritiene esperti.

Non fermarsi a riflettere su cosa si sta facendo, su chi prima di noi ha creato e prodotto, porta a questo equivoco conoscitivo e ad una percezione errata di se stessi e della concezione stessa di arte evitando una vera crescita culturale e artistica.

Ho letto recentemente in uno di quei diari umoristici una battuta che a questo proposito mi sembra quanto mai appropriata: "Fai della tua mente una fortezza e trincerati dietro la tua ignoranza", è proprio ciò che bisognerebbe evitare di fare in fotografia.

Il ciclo delle fotografie

Partiamo dalla notizia: “Una foto non è per sempre” articolo flash su Internazionale che traduce e riprende una notizia del Time del 3 dicembre 2014.

In breve un noto fotografo di Instagram Richard Koci Hernandez cancellerà tutte le sue foto il 6 dicembre 2014 dopo aver riflettuto sul fatto che una foto non deve sopravvivere per sempre come succede sul web e che, ad esempio, nelle mostre puoi avere l’esperienza della visione delle foto finché c’è la mostra, dopo puoi solo vedere una loro riproduzione ma ad un certo punto l’esperienza finirà. Su internet l’esperienza non finirà mai ed anzi internet non dimentica mai: quindi il fotografo dovrà sempre confrontarsi con scatti che non rispecchiano più la sua evoluzione artistica e fotografica.

Al di là di un atteggiamento che può sembrare snob, il punto è proprio questo: è vero che internet “seppellisce” le foto sotto migliaia di foto più recenti ma non le “dimentica” mai, per cui si avrà sempre memoria di foto che non rappresentano più il fotografo e l’artista.

E’ giusto mantenere sempre in vetrina le proprie foto, i propri scritti o qualsiasi altra forma di pensiero e/o arte?
L’esperienza che si realizza in una visione unica non è forse più coinvolgente e totalitaria di una forma di arte “continua” e continuativa quasi sempre come se fosse uno spot pubblicitario e autocelebrativo senza sosta?

L’uso continuativo dei social media e delle nuove tecnologie se da un lato sono un ottimo veicolo per l’arte in generale e la fotografia in particolare, dall’altro finiscono per svilire e banalizzare proprio quell’attività che meriterebbe una esperienza visiva (nel caso della fotografia) più intensa e coinvolgente come potrebbe essere quella che si realizza durante una visione più limitata nel tempo piuttosto che in un flusso continuo e ininterrotto di immagini postate su internet. 

Viviamo in periodo dove, mai prima d’ora, la fotografia ha raggiunto livelli di diffusione vastissimi ma ciò ne ha creato anche il suo svilimento: una fotografia così veloce da essere “consumata” senza alcuna attenzione. Non solo la fotografia veicolata attraverso internet si è trasformata in una fotografia “usa e getta” o meglio “guarda e vai oltre”, una fotografia con poco contenuto e scarsa forma, ma anche molta della fotografia utilizzata sulla stampa, complice anche la crisi dell’editoria, e che più avrebbe dovuto difendere il ruolo stesso della fotografia, ha finito per soggiacere alle regole di una fotografia immediata ma povera.

Ora di sicuro non tutta la fotografia subisce questo processo di livellamento verso il basso e svilimento attraverso internet, ma certo internet favorisce il processo che porta ad una scarsa riflessione davanti all’immagine: un po’come leggere un libro saltando interi paragrafi e capitoli, magari se ne comprende anche il senso ma si perde il gusto della lettura e dell’esperienza che se ne trarrebbe.  

Per cui credo che il nostro Hernandez abbia riflettuto proprio su tutto ciò e alla fine sia giunto ad una decisione che posso anche comprendere.

Non fotografare

Si fotografa sempre tutto, ma spesso è più utile non fotografare e riflettere prima di porre mano alla macchina fotografica, così ammoniva il grande Andò Gilardi, scomparso qualche tempo fa:

"Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati.

Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese,

i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte.

Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime delle droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia.

Non fotografare chi ha le manette ai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perchè non possono respingerti. Non fotografare la suicida, l'omicida e la sua vittima.

Non fotografare l'imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo.

Non fotografare il carceriere, il giudice e nessuno che indossi una toga o una divisa. Hanno già soppportato la violenza non aggiungere la tua. Loro debbono usare violenza, tu puoi farne a meno.

Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi. Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l'eroico moncherino.

Non ritrarre un uomo solo perchè la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme. Non perseguitare con i flash la ragazza sfigurata dall'incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l'attrice imbruttita dal tempo. Per loro gli specchi sono un incubo, non aggiungere le tue fotografie. Non fotografare la madre dell'assassino e nemmeno quella della vittima. Non fotografare i figli di chi ha ucciso l'amante, e nemmeno gli orfani dell'amante. Non fotografare chi subì ingiuria: la ragazza violentata, il bambino percosso. Le peggiori infamie fotografiche si commettono in nome del diritto all'informazione. Se è davvero l'umana solidarietà quella che ti conduce a visitare l'ospizio dei vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica. Non fotografare chi fotografa; può darsi che soddisfi solo un bisogno naturale.

Come giudicheremmo un pittore in costume bohémien seduto con pennelli, tavolozza e cavalletto a fare un bel quadro davanti alla gabbia del condannato all'ergastolo, all'impiccato che dondola, alla puttana che trema di freddo, ad un corpo lacerato che affiora dalle rovine?? Perchè presumi che il costume da free-lance, una borsa di accessori, tre macchine appesa al collo e un flash sparato possano giustificarti?"