Oggi l'articolo che state per leggere non è il mio ma di un mio amico, Nicola Focci. Un fotografo bolognese appassionato e competente che si dedica principalmente alla fotografia analogica seguendo ogni fase del processo, dallo scatto alla stampa in camera oscura tradizionale.
Lui stesso tiene un blog che vi consiglio vivamente di seguire sul suo sito www.nicolafocci.com dove cerca di portare con metodica costanza la sua esperienza. Recentemente ha scritto un piccolo libro, che trovate anche sul suo sito e diffuso in formato elettronico, molto utile a chi volesse oggi intraprendere l'avventura del bianco e nero analogico.
Abbiamo deciso di scambiarci per una volta i blog e quindi lui ha scritto un articolo per me ed io per lui. Spero che apprezzerete il suo articolo così come io stesso l'ho apprezzato e che qui vi propongo:
Un saluto a tutti i lettori del blog di Domenico!
E un ringraziamento a Domenico stesso per lo spazio che mi offre. E’ un’opportunità preziosa, e voglio quindi usarla per raccontare qualcosa che mi è prezioso: una storia familiare, e - ovviamente! – di fotografia.
Ogni famiglia ha i propri riti, le proprie leggende, i propri punti fissi.
Per noi, uno di questi punti fissi è sempre stato James Bond: l'agente 007 con licenza di uccidere.
Mio padre, classe 1941, ha vissuto la sua giovinezza al cinema con Sean Connery (e probabilmente anche con la conturbante immagine di Ursula Andress che esce dalle acque giamaicane in un risicatissimo bikini).
Io, classe 1970, sono stato un po' meno fortunato perché la mia giovinezza è trascorsa con Roger Moore… sta di fatto che, in famiglia, per niente al mondo avremmo perso un nuovo film del mitico agente 007!
Appena usciva, scattava il classico programma: cinema, e poi pizza da "I Gaetano".
E lì, con mia madre e mio padre e mio fratello, si fantasticava degli ultimi gadget del mitico Q ("La prego di riconsegnare intatto l'equipaggiamento al termine della missione!"): armi iper-tecnologiche, auto sportive, gioielli miniaturizzati...
Erano soprattutto questi ultimi a stupirci e meravigliarci: l’orologio con registratore, il lancia-dardi da polso, il porta-sigarette con decifratore di casseforti, l’accendino-fotocamera con l’obiettivo nella “0” di 007…
Fu probabilmente su questo tipo di spinta che, nei primi anni '80, mio padre acquistò una piccola Minox.
Andava ad affiancarsi ad altri apparecchi di famiglia sicuramente più blasonati, come la Leicaflex e la Rolleiflex. Ma era una macchinetta affascinante: davvero minuscola - con quell'obiettivo rientrante - sembrava proprio una creazione di Q!
La mettevi nella tasca dei jeans, e via. L'otturatore centrale era silenziosissimo. Eppoi c'era questa cosa geniale della ribaltina che alla bisogna fungeva anche da supporto: nelle chiese dove non si poteva fotografare, appoggiavamo l'apparecchio su un banco facendo finta di niente, e lo recuperavamo quando l'autoscatto era terminato.
Pazienza se poi l'esterno era in plastica dall'aspetto un po’ economico, e la messa a fuoco bisognava farla a stima usando l'iperfocale!
Io ero alle mie prime esperienze con una fotocamera, e ricordo che facevo impostare la messa a fuoco da mio padre, e poi "giocavo" col diaframma.
La Minox infatti ha l'automatismo a priorità di diaframma: impostato quello, la macchina sceglie il tempo, e lo mostra con un curioso ago galvanometrico nel mirino che si muove tra quattro settori: “<30”, “30”, “125”, “500”, ” >500”.
"Se scende sotto 30, devi aprire il diaframma!" diceva mio padre, non prima di avermi pazientemente spiegato cos'era ed a cosa serviva questo benedetto "diaframma". Così ho imparato i primi rudimenti della famosa e indispensabile "tripla" (tempo, diaframma, sensibilità); fu decisamente un bene che la Minox non fosse completamente automatica.
Col tempo imparai anche a usare i segni sul barilotto per impostare da me la messa a fuoco, misurandomi con un altro concetto importantissimo che non avrei mai appreso se avessi avuto tra le mani una moderna autofocus: la profondità di campo.
Quanto ai risultati, il piccolo 35 f/2.8 della Minox (schema tipo Tessar) forniva risultati davvero eccellenti. E la ribaltina lo proteggeva dalla proverbiale ditata che, maldestro com'ero, riuscivo spesso a rifilare al Summicron della Leicaflex (i tappi delle ottiche, in casa nostra, non duravano più di una settimana).
Nel corso dei nostri viaggi agostani (perché mio padre era agente di commercio e in ferie ci si andava solo ad Agosto, come del resto tutta Italia) la Minox ci regalò moltissime soddisfazioni, leggera e comoda com'era.
Finché un bel giorno, improvvisamente, non scattò più.
Niet, niente, kaput: l'otturatore faceva il solito e sommesso "clic", ma i rullini uscivano completamente neri. Anche dopo aver sostituito la pila.
Il negoziante la prese in carico per la riparazione, ma ce la restituì poco dopo con lo sguardo affranto: non si può aggiustare, mi spiace.
Allora non si sapeva, ma oggi sì: questa fantastica macchina soffre di un difetto congenito all'otturatore, che a volte viene colpito da morte improvvisa (o "sudden death" come dicono gli anglofoni). Un ferale vulnus di progettazione che non colpisce tutti i modelli, ma lo fa in modo asistematico... rendendo le Minox usate di oggi un equivalente della scatola di cioccolatini di Forrest Gump: non sai mai quello che ti capita.
Io, però, la Minox l'ho voluta ricomprare lo stesso!
Un paio di anni fa mi sono preso una 35 GT. Ed ho persino avuto l'ardire di portarla con me in vacanza come unico apparecchio!
Ad ogni cambio rullino, controllavo che l'otturatore scattasse... E sapevo che il "sudden death" poteva arrivare. Ma per me è un po' come tornare indietro nel tempo: ogni scusa è buona per farlo, quando ci si riesce!
Se anche questa Minox mi abbandonerà, io ne ricomprerò un'altra. Garantito! Sia per motivi nostalgici, sia perché è ancora in grado di produrre magnifiche immagini.
Eppoi, bisogna ammetterlo: le fotocamere sono un po’ come le persone. Cioè vanno sempre accettate nella loro interezza: i pregi che tanto ci piacciono, e i difetti che tanto ci fanno dannare.