La Voigtlander Bessa R3a

Iniziamo con una premessa: oggi giorno ha ancora senso scattare a pellicola? Io penso di si, la pellicola e il digitale possono coesistere e l'uno non esclude l'altro. Ma non ho voglia, di entrare nella discussione ormai vecchia, digitale-analogico. Ognuno può valutare da se cosa ritiene meglio per lui.

Quello che invece ho voluto fare è stato provare la Voigtlander Bessa R3a, una macchina a pellicola non certo recente, anzi ora la si può trovare solo usata. La mia non è una vera e propria recensione perché oltre a non essere un tester di macchine fotografiche, credo che in rete ve ne siano già abbastanza. Piuttosto ho voluto testare questa macchina più come oggetto del desiderio che fu.

Quando le Leica a pellicola avevano ancora dei prezzi di tutto riguardo (e li hanno ancora), la Bessa era una valida alternativa che permetteva di usare il telemetro e montare ottiche Leica M ad un prezzo molto ragionevole. Fino a pochi anni fa, per altro, la Bessa era anche abbastanza comune sul mercato dell'usato perché veniva venduta da tutti coloro che in riuscivano a fare il salto verso un corpo Leica.

Introdotta al Photokina di Colonia nel 2004., le Bessa R2a e R3a possono considerarsi le discendenti della Leica M7. Con quest'ultima condividono soprattutto, oltre la baionetta, l'automatismo sulla scelta dei tempi. Le due macchine R2a e R3a sono molto simili a parte per le crocette dell'inquadratura sul mirino e l'ingrandimento del mirino stesso. Mentre la R2a ha un ingrandimento di 0,68 e predilige appunto ottiche corte, la R3a ha un fantastico mirino 1:1 ed è orientata ad ottiche più lunghe potendo mostrare crocette a partire dal 40mm fino al 90mm. Queste si selezionano manualmente con l'apposito selettore che si trova sul corpo.

Il mirino 1:1 permette di focheggiare ad occhi aperti e anche l'uso di un 90mm è tutto sommato agevole. Purtroppo però in controluce non è così semplice come con una Leica dal mirino più recente.

Me ne sono andato in giro a scattare due rulli Rollei RPX400 esposti al nominale. Ho fatto un rullo con il Leica 35mm f/2 Asph (penultimo tipo) ed un rullo con il Summicron 75mm f/2 Asph. Mentre con il 35 mi sono dovuto accontentare delle crocette per il 40mm non essendoci espressamente quelle del 35mm, con il 75mm non ho avuto problemi. Ho messo la macchina in automatismo (priorità di diaframma) e scattare street photography è stato facilissimo e molto divertente. L'esposimetro mi è sempre sembrato abbastanza preciso e il caricamento della pellicola facile e veloce così come il riavvolgimento.

Lato dolente invece la rumorosità dell'otturatore: era come avere reflex a pellicola. L'otturatore metallico è molto rumoroso e neppure lontanamente parente di quello di una Leica. Purtroppo per la fotografia street forse continuerei a preferire una Leica, ma nei viaggi o in situazioni dove non sia richiesta silenziosità di scatto è un'ottima macchina, forse persino più resistente. In effetti in mano si ha una bella sensazione di metallo.

Oggi una Bessa R3a la si può acquistare per meno di 400 eur, un prezzo sicuramente ragionevole se paragonato a molte altre macchine e potrebbe esser un ottimo secondo corpo Leica M, preferendo sempre quest'ultimo alla Bessa.

Per quel che riguarda i rullini ho sviluppato i due Rollei RPX400 con il Rollei Supergrain 1+12 per 7min a 20° e agitazione ogni 30 secondi. Le foto appaiono perfettamente sviluppate (anche le scritte sulla pellicola sono perfette indice di un buono sviluppo), la pellicola appare di per se già contrastata abbastanza e facile da scansionare restituendo già un giusto contrasto, tuttavia altrettanto non può dirsi della stampa analogica dove a causa del contrasto iniziale della pellicola gli interventi sotto l'ingranditore sono destinati a ridursi drasticamente. Questo di per se non è male soprattutto se si vuole accettare scansioni e stampe senza troppi interventi in post produzione. Quindi sarei portato a consigliare la pellicola soprattutto nella street photography. Altro vantaggio da non sottovalutare è che la pellicola è stesa su un supporto politenato che non tende molto ad arricciarsi e quindi mantiene la sua planarietà utile nelle scansioni.     

Lezioni per una buona fotografia: Leonard Freed

© Leonard Freed / Firenze, 1958

© Leonard Freed / Firenze, 1958

Leonard Freed è stato uno dei più famosi fotografi del XX sec., lasciandoci in eredità una vasta produzione dalla quale come cultori della buona fotografia possiamo ricavare alcune importanti lezioni.
Leonard Freed nacque da genitori ebrei originari dell’Europa dell’Est a Brooklyn (New York) nel 1929 e le sue origini segnarono gran parte della sua attività di fotografo negli anni seguenti. Voleva diventare pittore ma nel 1953, mentre si trovava nei Paesi Bassi, inizia a scattare fotografie e scopre la sua vocazione. Cinque anni più tardi, nel 1958, ad Amsterdam realizza un reportage sulla comunità ebraica.
Dal 1961 inizia a viaggiare molto realizzando nel contempo molti reportage: fotografa i neri d’America fra il 1964 e il 1965, il conflitto d’Israele nel 1967-68, la guerra del Kippur nel 1973 e il dipartimento della polizia di New York fra il 1972 e il 1979. Nel 1972 entra nella Magnum. Fra le mete dei suoi viaggi ci fu l’Italia che amò e raccontò diffusamente. 
Leonard Freed morì a New York il 30 novembre 2006.

La fotografia racconta chi siete

© Leonard Freed / Napoli, 1958

© Leonard Freed / Napoli, 1958

“In ultima analisi la fotografia riguarda chi siete. E’ la ricerca della verità in relazione a voi stessi. E ricercare la verità diventa un’abitudine”.

Quando scattiamo fotografie scattiamo verso un soggetto, ma indirettamente scattiamo anche dietro, verso di noi. La fotografia mostrerà il nostro “sentire” verso la scena ripresa.
La fotografia che scattiamo racconterà qualche cosa di chi la scatta e un intero progetto fotografia sarà in grado di spiegare come il fotografo vede l’argomento. In questo la fotografia, come dall’origine del nome, è una forma di scrittura. Anche quando cercheremo di essere distaccati e vorremmo solo descrivere, in realtà eserciteremo la massima forma di scrittura creativa.
Non necessariamente avremo bisogno di ricordarci di questa curiosa proprietà della fotografia, ma ci basterà sapere che nel momento in cui l’otturatore scatterà avremmo prestato i nostri occhi ad ogni futuro spettatore della nostra immagine ed in quella immagine ci saremo anche noi stessi. Non come fa il pittore che ridisegna la realtà fino a piegarla al suo animo, ma togliendo piuttosto che aggiungendo, mostrando un nuovo punto di vista per la realtà o semplicemente evidenziando un aspetto e inducendo uno stato d’animo.
Leonard Freed ci racconta ancora come lui si poneva di fronte alla fotografia:

“Sono come uno studente curioso, che vuole sempre imparare. Per poter fotografare devi prima avere un’opinione, devi prendere una decisione.”

E ancora

“Fotografare è quindi imparare continuamente, avere lo spirito di un bambino pur essendo un adulto”

Fotografare è quindi perdersi come un bambino, alcune volte bisognerebbe abbandonare tutto quello che si è appreso della fotografia e riscoprire il desiderio di fotografare che si ebbe quando, per la prima volta, si prese in mano una macchina fotografica. Ogni cosa in quel periodo appariva curiosa e meritevole di esser fotografata, oggi, purtroppo, le sovrastrutture psicologiche e le conoscenze nel campo fotografico inibiscono spesso l’istinto fotografico creando delle gabbie e dei cliché dove rinchiudiamo il “bambino fotografo” e curioso che è in ognuno di noi. Rompere quella gabbia dovrebbe essere il primo impulso per una buona fotografia.

La fotografia deve raccontare una storia

© Leonard Freed / Venezia, 2004

© Leonard Freed / Venezia, 2004

“La fotografia deve raccontare una storia, la gente deve guardarla come se stesse leggendo una poesia. Una buona fotografia deve essere come un piccolo poema.”

Spesso ci preoccupiamo di spiegare le nostre foto, questo inevitabilmente mostra il limite della nostra fotografia. Una fotografia riuscita non dovrebbe aver bisogno di nessuna spiegazione, dovrebbe contenere tutto al suo interno senza  bisogno di altre parole.
In sostanza il nostro linguaggio non dovrebbe aver bisogno di una traduzione per poter essere compreso:

“La foto non deve avere bisogno di una spiegazione, deve trasmettere un messaggio forte di per sé. Non dovrebbe essere accompagnata da una didascalia. Altrimenti non è una buona foto”

© Leonard Freed / Roma, 1958

© Leonard Freed / Roma, 1958

Ancora una volta Leonard Freed ci avverte, senza giri di parole, che la foto deve parlare da sola. Sia che si tratti di una singola fotografia o di un progetto fotografico, la storia deve essere chiara a chiunque la osservi.

“Le fotografie dovrebbero parlare da sole la loro lingua.”

La macchina fotografica è parte dello sguardo

© Leonard Freed / Dusseldorf, 1965

© Leonard Freed / Dusseldorf, 1965

“Prima di tutto occorre che ci sia una buona composizione che possa funzionare come astrazione, che è come le fondamenta di una casa: se non ci sono delle buone fondamenta la casa crolla.”

I principi fotografici che Leonard Freed ci dispensa sono pochi ma basilari e primo fra tutti della composizione. Se guardiamo le sue fotografie ci accorgiamo che l’inquadratura è spesso perfetta, mai lasciata al caso.
Inoltre notiamo un’altra importante questione: l’alternarsi di formati orizzontali e verticali a seconda del caso. Spesso si tende ad essere schiavi di un modo di inquadrare (sempre in orizzontale o sempre in verticale) senza concederci di poter trovare l’inquadratura giusta in un formato diverso. Nello scegliere le nostre inquadrature dovremmo avere la libertà mentale di provare uno scatto verticale e orizzontale a seconda del caso.
Egli cammina nei vicoli delle città, analizza le situazioni che vede e scende in profondità, non si ferma agli aspetti estetici e nel far ciò ha sempre presente i principi della composizione. Spesso realizza fotografie di persone con lo sguardo in macchina, posati. Lui non è il fotografo del momento decisivo come lo era Cartier-Bresson. Leonard Freed racconta storie di cui i suoi soggetti sono spesso gli attori. Non sempre l’uomo è il soggetto principale delle sue foto, spesso lo diventa solo in relazione all’ambiente.

 

© Leonard Freed / Napoli, 1958

© Leonard Freed / Napoli, 1958

Il suo "momento decisivo" non è fatto quindi di un istante, ma di ricerca, una ricerca costante dell'inquadratura migliore, del momento in cui la storia si svela.

© Leonard Freed

© Leonard Freed

© Leonard Freed / Baltimore, 1964

© Leonard Freed / Baltimore, 1964

“La macchina fotografica, di cui Freed faceva un uso istintivo (regolava l’esposizione a occhio, senza affidarsi all’esposimetro), divenne parte del suo sguardo. Quando guardiamo una delle sue immagini, non facciamo altro che vedere con i suoi occhi” (da “Io amo l’Italia”).

“Oggi la mia attrezzatura prevede poca roba, perché se perdi tempo a cambiare obiettivo il mondo se ne va. E’ più importante cogliere l’attimo piuttosto che riflettere sull’attrezzatura migliore in quell’attimo. Uso soprattutto 35 e 50 mm”.

© Leonard Freed / Milano, 1992

© Leonard Freed / Milano, 1992

In buona sostanza una macchina e un obiettivo dovrebbero essere le scelte migliori per ogni bravo fotografo, il vincolo renderà liberi e migliorerà la fotografia.
Anche sulla disputa bianco e nero versus colore, Freed sarà drastico:

“Il bianco e nero trasmette meglio la personalità del soggetto senza che l’occhio dell’osservatore sia distratto dai colori.”

La fotografia come religione

© Leonard Freed / Napoli, 1956

© Leonard Freed / Napoli, 1956

“Per me la fotografia è una religione e io sono molto osservante. Bisogna cercare la verità, dire la verità, mostrarla al pubblico. … E’ importante che la gente creda alla foto cha sta guardando”

La fotografia come religione non come verità assoluta, quindi. Credere nella fotografia non perché essa è vera in senso assoluto, Leonard Freed avrà modo di chiarire asserendo:

“Fondamentalmente penso che ci siano fotografie ‘informative’ e fotografie ‘emotive’. Io non faccio fotografie informative, non sono un fotogiornalista, sono un autore, non sono interessato ai fatti. Io voglio mostrare atmosfere”

Nulla sta dicendo in merito alla “manipolazione” della fotografia, che, in fondo, non ci riguarda. Freed sposta l’asticella del contendere non alla banale manipolazione ma al messaggio: lui non è un fotoreporter.
Nelle fotografie che ci ha lasciato si supera il reportage e il messaggio di denuncia, Freed parte dall’analisi sociale in cui si trova per suonare le corde più artistiche del quotidiano.

“Quando stai fotografando, sei immerso nell’esperienza, diventi parte di ciò che stai fotografando. Devi immedesimarti nella psicologia di chi stai per fotografare, pensare ciò che lui pensa, essere amichevole e neutrale” 
“E’ soltanto ciò che avviene per caso, la scintilla della vita, che dà verità alle cose”

© Leonard Freed / Haifa 1967

© Leonard Freed / Haifa 1967

Eli Reed scriverà di lui: “Era il perfetto esponente della vera fotografia Zen, perché andava ovunque e si lasciava guidare dalle fotografie”.
Lasciarsi guidare dalle fotografie che si hanno dentro, questa è la massima forma di fotografia Zen a cui dovremmo omologarci quando siamo in giro.

 

© Leonard Freed / New York City, 1963

© Leonard Freed / New York City, 1963


Ho visto la mostra "Il mondo a modo suo" di William Klein

William Klein è fra i fotografi viventi più controversi. Personalmente non posso che ammirare alcuni suoi scatti e rimanere sconcertato davanti ad altri. Ad ogni modo William Klein è un artista: non è un fotogiornalista, non è un fotografo di moda, non è un fotografo di reportage.


La mostra in corso a Milano ci concede l’occasione per ripercorrere la sua intera produzione e la sua evoluzione artistica. Le sezioni della mostra sono organizzate in tal senso partendo dalle prime astrazioni che espose al Piccolo Teatro di Milano nel 1952 invitato da Giorgio Strehler, e via via attraverso i lavori più noti su New York, Roma, Mosca, Tokyo senza dimenticare la moda, i provini a contatto dipinti e i film. C’è tutto, e purtroppo troppo.


C’è una carrellata su tutto ciò che William Klein è stato ed ha fatto ma, a mio avviso, questo ha tolto spazio proprio alla fotografia. Le fotografie sono scenograficamente enormi, ti avvolgano nelle loro dimensioni ma ti allontanano per poterle guardare. Le sezioni sono introdotte da enormi scenografie murali. I pannelli spesso montati in quattro fotografie accostate le une alle altre rendono le scene enormi e dove invece sono esposte fotografie e non pannelli queste vengono sovrapposte in file di tre o più foto o addirittura intere pareti di fotografie accostate le une alle altre. Tutto è molto scenografico.

E’ interessante vedere gli scatti più famosi di Klein in grande formato ma avrei voluto avvicinarmi alla fotografia per apprezzarne i dettagli ed entrare in sintonia con essa piuttosto che allontanarmi per vederla e rimanere vagamente distratto dalle altre fotografie intorno. Purtroppo oggi il senso comune della fotografia è quella di avere stampe a dir poco grandi, frutto forse dell’interesse dei galleristi per la fotografia e nel trattarla quasi a metro quadro.

Interessanti invece nella mostra sono i grandi pannelli che illustrano le sezioni.  Nella sezione dei printed contacts ad esempio si apprende come Klein vide la possibilità di inventare un nuovo tipo di oggetto artistico unendo pittura e fotografia.


Lo sguardo di Klein sulle realtà urbane da lui indagate ha sempre un filo conduttore che spiegherà bene recandosi a Tokyo: guardare e fotografare senza giudicare. Una lezione interessante, non esclusiva di Klein tuttavia, riguarda come non sempre e necessariamente sia interessante la fotografia che ritrae esseri umani in quella che comunemente viene chiamata street photography.

La mostra è in corso al Palazzo della Ragione a Milano fino all’11 settembre 2016.