La patata da un milione di euro

Oggi si legge sulla stampa di un altro record fantascientifico: una patata, o meglio la rappresentazione fotografica di questo tubero, è stata venduta ad un milione di euro. Notizia per altro neanche troppo fresca.

Potato #345 (2010)

In realtà non stiamo parlando di un tubero particolare; una patata gigante o fuori dal comune, ma di una comunissima patata ritratta però da Kevin Abosch. Ancora una volta si griderà allo scandalo, alla pazzia di chi, di fronte alla foto di una patata, sborsa una cifra folle per appendersela in casa. Forse è così, ma di certo è solo l'ultimo esempio in ordine temporale di arte contemporanea venduta a cifre con sei zeri.

Mi viene sempre in mente, quanto leggo queste notizie, il famoso squalo in formaldeide di Damien Hirst, ormai simbolo dei prezzi esorbitanti dell'arte contemporanea. In fondo Kevin Abosch prima di essere fotografo (per la verità prima ancora era biologo) è un artista. Un artista contemporaneo che ha reinterpretato l'arte antica del ritratto fotografico. E così nella sua galleria troviamo, affianco al ritratto di Jonny Depp o di Malala Yousafzai (l'attivista pakistana vincitrice del Nobel per la pace), anche i ritratti più singolari come quelli di oggetti apparentemente comuni come l'oca di Natale o il bicchiere di latte.

Sono simboli, interpretazioni dell'autore, non sono più la rappresentazione pura e semplice dell'oggetto ma, al limite, la sua idea. In questo l'opera fotografica di Kevin Abosch supera i canoni della rappresentazione e diventa in qualche modo una forma d'arte. Una comunicazione non più legata all'oggetto rappresentato, esattamente come ha fatto per i ritratti. Il "potevo farlo anche io" è solo un luogo comune davanti all'arte contemporanea: essa nasce da nuove idee o da una nuova interpretazione.

L'autore stesso racconta come non si trova a suo agio con la parola fotografo perché nei suoi ritratti è più interessato ad indagare la condizione umana di quanto non sia interessato alla mera rappresentazione fotografica in se stessa, è, semmai, interessato a rimuovere la maschera che tutte le persone usano.

E' curioso come in Abosch arte e scienza si intersechino vicendevolmente, sicuramente a causa della sua formazione. Egli dice che

L’intersezione tra arte e scienza spesso concede chiare sorprese! Alla fine della giornata, sono un ontologo, interessato a questioni di identità e di esistenza. Arte e scienza sono solo il mezzo per raggiungere un fine.
— A. Shontell, "This photographer takes $150,000 portraits of Silicon Valley's most powerful people, and he sold a picture of a potato for over $1 million" for Buisiness Insider UK, Jan. 20, 2016

Kevin racconta che un giorno, quando aveva circa di 10 anni, era seduto a far colazione davanti al padre che aveva davanti una scodella di latte ed un cucchiaio. Quando ebbe finito, il padre alzò il cucchiaio davanti alla faccia di Kevin e gli chiese cosa fosse questo. Il ragazzo rispose ovviamente che era un cucchiaio, ma il padre insistette nel chiedergli cosa realmente fosse e rispose al giovane Kevin che era un'opportunità di divertimento nell'usare un cucchiaio.

Oggi non mi meraviglia il prezzo di una sua opera (alla finei potrebbe essere che non sia neppure troppo reale), ma l'abilità con cui riesce a scavare nel profondo.

Ho visto la mostra "Vivian Maier. Una fotografa ritrovata"

Ormai Vivian Maier non è più la sconosciuta bambinaia di Chicago, la sua storia ha fatto ha fatto il giro del mondo e credo che John Maloof abbia ampiamente raggiunto il suo scopo di ritagliargli un posto nell'Olimpo dei grandi Fotografi.
La sua prima mostra a Milano (Galleria Meravigli fino al 31 gennaio 2016) sta avendo un gran seguito, io l'ho vista qualche giorno fa e ne avevo visto anche l'allestimento passando da quelle parti qualche giorno prima, quando appunto arrivarono le casse contenenti le fotografie.

Vivian Maier

La storia di Vivian Maier mi aveva incuriosito molto fin dall'inizio e la segui con interesse, vedendo anche il bel documentario "Alla ricerca di Vivian Maier" curato sempre da Maloof, il fortunato scopritore della fotografa. Le principali fotografie devo dire che mi sono tutte abbastanza note per lo splendido lavoro che stanno facendo con il suo sito e con la sua diffusione, quante però ancora non conosciute o non sviluppate ve ne siano non è dato sapere.
È un po' con questa speranza, cioè di vedere nuove foto oltre quelle del libro e catalogo della mostra stessa, e con la curiosità di vedere le stampe che mi sono recato alla mostra di Milano organizzata dalla Fondazione Forma per la Fotografia.
Dirò subito che le mie aspettative sulle nuove foto sono andate deluse: purtroppo non vi erano lavori non noti, ma in compenso vi erano alcuni spezzoni filmati da lei che personalmente non conoscevo e che denotano quanto attenta all'inquadratura e quanto meticolosamente si dedicasse alla sua attività.
I lavori presenti, per lo più in bianco e nero invece non deludono le aspettative. Le stampe sono mediamente grandi e molto "pulite", fanno apprezzare il senso dell'inquadratura della Maier. Sono sicuramente di grande impatto e la cornice chiara color legno rende l'allestimento essenziale  e ordinato pur mettendo in mostra un numero considerevole di immagini.
Di minore effetto, a mio parere, le fotografie a colori della Maier. Non che non avesse occhio per il colore che anzi riusciva a vederlo molto bene, ma perché forse sono in numero considerevolmente minore e un po' sacrificate nell'allestimento; in fondo ciò che ha reso famosa la Maier è stato quel bianco e nero quadrato della sua Rolleiflex. Il colore, per ora e per la sua storia, lo ascriverei ad una pura sperimentazione.
All'uscita della mostra non conosco meglio Vivian Maier rispetto a quanto sono entrato, quindi catalogherei la mostra più fra gli eventi estetici che ad un evento conoscitivo. In fondo una mostra può farci conoscere meglio un autore oppure mostrare i suoi lavori noti in modo retrospettivo, ed è qui collocherei la mostra di Milano.
Vivian Maier è sicuramente una delle personalità più controverse degli ultimi anni e per quel che conosciamo fino ad ora è stata una grande street photographer, come oggi la definiremmo, la mostra contribuisce a farci apprezzare le sue inquadrature e il suo talento. Osservando le sue foto si rimane colpiti da quanto ella si spingesse verso il soggetto che ritraeva fino al limite della sua sfera personale.
Per quanto non ne sia uscito dalla mostra pienamente soddisfatto per via delle aspettative che mi ero fatto, credo che andrò a rivederla prima del suo termine se non altro per studiare attentamente le sue fotografie.


Ho visto “Henri Cartier-Bresson e gli altri” Italia inside out 2

Dopo la prima mostra dedicata a come i fotografi italiani hanno visto e vedono il nostro Paese, arriva a Milano (Palazzo della Ragione fino al 7 febbraio 2016) anche la seconda mostra dedicata a come i fotografi stranieri, a partire da Bresson, hanno visto l’Italia.

La mostra si snoda attraverso sette temi principali: l’Italia, la fotografia “umanista” e altro, la poesia del bianco e nero, dove l’interpretazione diventa un atto d’amore, la nobile tradizione documentaria, lo sguardo inquieto, lo sguardo positivo e infine autoritratto: le possibilità del “racconto si se”.

Ognuna di queste sette aree tematiche raccoglie l’interpretazione di alcuni dei massimi fotografici stranieri che si sono cimentati con il nostro Paese.

Il viaggio parte, forse in modo un po’ retorico, con Cartier-Bresson, ma al contrario di quanto si potrebbe pensare è solo un’introduzione, una visione dell’Italia degli anni ’30 basata sul suo sguardo geometrico e pronto a cogliere l’attimo. Dopo di lui ecco il susseguirsi incalzante di altri grandi della fotografia mondiale Capa, Seymour, Cuchi White e William Klein con le sue immagini tratte dalla Roma degli anni ’50, tanto per citare i primi che si incontrano lungo il percorso fatto di brevi teche dedicate ai fotografi, in un ambiente scuro che mette in risalto la fotografia e la sua forza.

Ogni autore è accompagnato da un breve commento, sulla sua visione o sulla sua tecnica che arricchisce ed incuriosisce. Ad esempio, Klein ci racconta che per lui la città è stata sempre una ricorrente ossessione ed ha cercato il ritmo nelle strade e nei segni, nelle smorfie di chi passava di fronte al suo obiettivo. Con Herbert List apprendiamo che

“non esiste alcuna “ricetta” per i fotografi. Un’opera d’arte può nascere tanto da un’accurata progettazione quanto da una fugace intuizione. Come il buon pittore non tenta di ricreare sulla tela con il suo pennello una riproduzione fotografica, alla stessa stregua il buon fotografo non deve “dipingere” con la propria macchina”.

Man mano che ci addentriamo in questo viaggio attraverso il dedalo scuro del filo conduttore della mostra il bianco e nero viene affiancato dalla sperimentazione e non solo dall’uso del colore. Colpisce ad esempio l’opera di Hiroyuki Masuyama che ricostruisce con le esposizioni multiple la Venezia dipinta da William Turner e l’opera di Abelardo Morell che utilizza il metodo della “Camera Obscura” con cui unisce interni ed esterni.

Al fianco di un’Italia vista con l’occhio del documentarista e con l’occhio dello sperimentatore, troviamo anche il paesaggio delle montagne di Alex Hütte, ma, ci suggerisce la didascalia,

“La fotografia di paesaggio non deve sembrare una cartolina” ha stabilito una volta, con laconica sintesi, Stephen Shore, “essa dunque deve evitare l’ingenuità di una veduta concentrata su stimoli superficiali: il suo obiettivo deve essere non la riproduzione unidimensionale di qualcosa di apparentemente straordinario, ma un’immagine che arriva fino agli strati più profondi, che è in grado di accogliere in se ambiguità e contraddizioni.

Sono queste le maestose montagne di Hütte.

Alla fine della mostra avremo contato 36 autori che, ognuno con il suo linguaggio, ci hanno portato a spasso per l’Italia attraverso la storia e le contraddizioni moderne. Non è una personale per ogni autore e quindi le foto presenti non saranno mai in numero elevato per ogni singolo autore ma in numero consistente a mostrare l’interpretazione data al nostro Paese da quel fotografo.

Dopo la prima mostra sui fotografi italiani, le mie aspettative erano alte per questo secondo capitolo e non sono andate deluse. Se ne esce arricchiti visivamente se si ha la pazienza di guardare con attenzione e indagare la ricerca che è stata fatta dagli autori al di là della semplice fotografia.