Roye

Via della Palla, Milano 12 gennaio 2007

Quel giorno camminavo stancamente per le vie intorno a Corso Torino ma senza una meta precisa: stavo semplicemente facendo due passi prima di immergermi nuovamente nel quotidiano di tutti i giorni. Ero già intenzionato a ritornare mestamente sui miei passi, quando vidi in un vicolo, proprio dietro la Fnac, un anziano signore che stava tranquillamente seduto e fumava il suo sigaro. Dietro si apriva quella che poteva apparire come una enorme discarica di un grande magazzino: moltissimi cartoni accatastati facevano da sfondo all'uomo. Il vecchio signore sembrava godersi il suo sigaro come un vecchio guerriero si riposa dopo una una lunga battaglia. Feci qualche passo nella sua direzione e decisi che la scena era troppo irreale per non meritare una foto, così presi dalla borsa la mia Leica R e scattai una foto in direzione dell'uomo il quale mi guardò senza fare alcun gesto. Abbassai la macchina fotografica e mi avvicinai. Capii subito che mi trovavo di fronte un homeless che probabilmente aveva trovato dimora in fondo al vicolo dove si intravedevano strutture artificiali costruite con teli e cartoni.
Salutai tranquillamente l'uomo e gli dissi che era un soggetto interessante per la mia foto, gli chiesi se lui abitasse lì. A quel punto si alzò in piedi e mi si parò davanti un omone enorme in stazza e altezza anche se anziano e un po' malandato. Mi parlò con uno strano accento americano e mi rassicurò sulle sue intenzioni. Lui viveva lì e quello era il suo vicolo.
Chiesi se mentre parlavamo potevo fotografarlo e lui mi di sse di si e mi disse anche che molte persone lo avevano fotografato. Pensai che probabilmente era molto caratteristico come clochard e che magari molti cacciatori di immagini lo avevano ritratto. Gli chiesi se per caso fosse americano dato l'accento o avesse vissuto lì. Con il suo stano accento come quello che potrebbe avere un italo-texano mi rispose che in una vita passata era stato un famoso cantautore country. Facevo molta fatica a credere a ciò che lentamente raccontava, mi parlava di Nashville, patria del country, di Elvis Presley e mi disse che il suo nome era Roye Lee, autore di musica country. Dubitavo molto di ciò che mi diceva ma le sue parole erano chiare e così certe che se non avessi avuto davanti quell'uomo così malridotto avrei pensato sicuramente che era stato se non un cantautore almeno un dj.
Avevo un rullo di diapositive nella macchina e gli scattai mentre parlavamo molte fotegrafie mentre lui intervallava le parole con profonde aspirazioni del suo sigaro al momento di salutarci gli dissi che sarei ripassato a trovarlo.
"Mi troverai quà" - mi disse - "e faremo ancora due chiacchiere"
"Ti porterò una foto di quelle di oggi", risposi
"Ne troverai tante di me in internet"
Non avrei mai pensato di dover cercare informazioni su un clochard in internet, ma le sue parole erano state chiarissime.
Passai alcuni giorni con il tarlo mentale di conoscere di più su Roye. Portai immediatamente il rullo di diapositive al laboratorio e mi misi alla ricerca su internet. Trovai diverse fotografie su di lui e la storia vera di un cantautore country finito sui marciapiedi di Milano: non potevo crederlo!
Appena avute indietro le diapositive feci una stampa di una sua foto in formato A4 e caricai un rullo BN. Il giorno seguente comprai anche una scatola di sigari toscani, non volevo presentarmi a mani vuote, e mi diressi all'appuntamento con Roye.
Non mi aspettava ma io trovai lui che si riposava liscandosi la sua lunga barba bianca come chi deve fare un grande lavoro e si riposa in attesa di fare mente locale sulle prossime attività. Lo salutai e subito mi riconobbe: "Hallo fotografo!", "Ciao Roye, come stai oggi? Ti ho portato la tua foto". Appena vide la foto fu contentissimo, mi disse che molti gli avevano fatto foto e messe in internet ma nessuno gli ne aveva mai regalato una. "Roye ho un'altro regalo" e tirai fuori la scatola di Toscani, gli si illuminarono gli occhi che, anche se piccoli come fessure, brillavano di contentezza. Parlammo a lungo del country e della musica mentre lui aspirava il suo sigaro gustandolo come si gusta un buon dolce alla fine di un pasto.
Nei giorni seguenti passai ancora qualche volta a trovarlo finchè un giorno non vidi più ed anche i giorni successivi non lo notai. Alla fine un giorno vidi il vicolo sgombero, mi si strinse il cuore pensando alla sua sorte.
Pian piano dimenticai il suo incontro finchè un giorno su un giornale on line lessi che il musicista Roye Lee era tornato e che avrebbe nuovamente inciso un disco: fu per me una bellissima sorpresa. Qualche volta, pensai, anche la vita e non solo le favole hanno un lieto fine.

Dalla Minox con amore

Oggi l'articolo che state per leggere non è il mio ma di un mio amico, Nicola Focci. Un fotografo bolognese appassionato e competente che si dedica principalmente alla fotografia analogica seguendo ogni fase del processo, dallo scatto alla stampa in camera oscura tradizionale.

Lui stesso tiene un blog che vi consiglio vivamente di seguire sul suo sito www.nicolafocci.com dove cerca di portare con metodica costanza la sua esperienza. Recentemente ha scritto un piccolo libro, che trovate anche sul suo sito e diffuso in formato elettronico, molto utile a chi volesse oggi intraprendere l'avventura del bianco e nero analogico.

Abbiamo deciso di scambiarci per una volta i blog e quindi lui ha scritto un articolo per me ed io per lui. Spero che apprezzerete il suo articolo così come io stesso l'ho apprezzato e che qui vi propongo:

 

Un saluto a tutti i lettori del blog di Domenico!

E un ringraziamento a Domenico stesso per lo spazio che mi offre. E’ un’opportunità preziosa, e voglio quindi usarla per raccontare qualcosa che mi è prezioso: una storia familiare, e  - ovviamente! – di fotografia.

Ogni famiglia ha i propri riti, le proprie leggende, i propri punti fissi.

Per noi, uno di questi punti fissi è sempre stato James Bond: l'agente 007 con licenza di uccidere.

Mio padre, classe 1941, ha vissuto la sua giovinezza al cinema con Sean Connery (e probabilmente anche con la conturbante immagine di Ursula Andress che esce dalle acque giamaicane in un risicatissimo bikini).

Io, classe 1970, sono stato un po' meno fortunato perché la mia giovinezza è trascorsa con Roger Moore… sta di fatto che, in famiglia, per niente al mondo avremmo perso un nuovo film del mitico agente 007!

Appena usciva, scattava il classico programma: cinema, e poi pizza da "I Gaetano".

E lì, con mia madre e mio padre e mio fratello, si fantasticava degli ultimi gadget del mitico Q  ("La prego di riconsegnare intatto l'equipaggiamento al termine della missione!"): armi iper-tecnologiche, auto sportive, gioielli miniaturizzati...

Erano soprattutto questi ultimi a stupirci e meravigliarci: l’orologio con registratore, il lancia-dardi da polso, il porta-sigarette con decifratore di casseforti, l’accendino-fotocamera con l’obiettivo nella “0” di 007…

Fu probabilmente su questo tipo di spinta che, nei primi anni '80, mio padre acquistò una piccola Minox.

Andava ad affiancarsi ad altri apparecchi di famiglia sicuramente più blasonati, come la Leicaflex e la Rolleiflex. Ma era una macchinetta affascinante: davvero minuscola - con quell'obiettivo rientrante - sembrava proprio una creazione di Q!

La mettevi nella tasca dei jeans, e via. L'otturatore centrale era silenziosissimo. Eppoi c'era questa cosa geniale della ribaltina che alla bisogna fungeva anche da supporto: nelle chiese dove non si poteva fotografare, appoggiavamo l'apparecchio su un banco facendo finta di niente, e lo recuperavamo quando l'autoscatto era terminato.

Pazienza se poi l'esterno era in plastica dall'aspetto un po’ economico, e la messa a fuoco bisognava farla a stima usando l'iperfocale!

Io ero alle mie prime esperienze con una fotocamera, e ricordo che facevo impostare la messa a fuoco da mio padre, e poi "giocavo" col diaframma.

La Minox infatti ha l'automatismo a priorità di diaframma: impostato quello, la macchina sceglie il tempo, e lo mostra con un curioso ago galvanometrico nel mirino che si muove tra quattro settori: “<30”, “30”, “125”, “500”, ” >500”. 

"Se scende sotto 30, devi aprire il diaframma!" diceva mio padre, non prima di avermi pazientemente spiegato cos'era ed a cosa serviva questo benedetto "diaframma".  Così ho imparato i primi rudimenti della famosa e indispensabile "tripla" (tempo, diaframma, sensibilità); fu decisamente un bene che la Minox non fosse completamente automatica.

Col tempo imparai anche a usare i segni sul barilotto per impostare da me la messa a fuoco, misurandomi con un altro concetto importantissimo che non avrei mai appreso se avessi avuto tra le mani una moderna autofocus: la profondità di campo.

Quanto ai risultati, il piccolo 35 f/2.8 della Minox (schema tipo Tessar) forniva risultati davvero eccellenti. E la ribaltina lo proteggeva dalla proverbiale ditata che, maldestro com'ero, riuscivo spesso a rifilare al Summicron della Leicaflex (i tappi delle ottiche, in casa nostra, non duravano più di una settimana).

Nel corso dei nostri viaggi agostani (perché mio padre era agente di commercio e in ferie ci si andava solo ad Agosto, come del resto tutta Italia) la Minox ci regalò moltissime soddisfazioni, leggera e comoda com'era.

Finché un bel giorno, improvvisamente, non scattò più.

Niet, niente, kaput: l'otturatore faceva il solito e sommesso "clic", ma i rullini uscivano completamente neri. Anche dopo aver sostituito la pila.

Il negoziante la prese in carico per la riparazione, ma ce la restituì poco dopo con lo sguardo affranto: non si può aggiustare, mi spiace.

Allora non si sapeva, ma oggi sì: questa fantastica macchina soffre di un difetto congenito all'otturatore, che a volte viene colpito da morte improvvisa (o "sudden death" come dicono gli anglofoni). Un ferale vulnus di progettazione che non colpisce tutti i modelli, ma lo fa in modo asistematico... rendendo le Minox usate di oggi un equivalente della scatola di cioccolatini di Forrest Gump: non sai mai quello che ti capita.

Io, però, la Minox l'ho voluta ricomprare lo stesso!

Un paio di anni fa mi sono preso una 35 GT. Ed ho persino avuto l'ardire di portarla con me in vacanza come unico apparecchio!

Ad ogni cambio rullino, controllavo che l'otturatore scattasse... E sapevo che il "sudden death" poteva arrivare.  Ma per me è un po' come tornare indietro nel tempo: ogni scusa è buona per farlo, quando ci si riesce!

Se anche questa Minox mi abbandonerà, io ne ricomprerò un'altra. Garantito! Sia per motivi nostalgici, sia perché è ancora in grado di produrre magnifiche immagini.

Eppoi, bisogna ammetterlo: le fotocamere sono un po’ come le persone. Cioè vanno sempre accettate nella loro interezza: i pregi che tanto ci piacciono, e i difetti che tanto ci fanno dannare.

La Signora dei piccioni

Castello Sforzesco, Milano Novembre 2006

La signora se ne stava lì e dava da mangiare ai piccioni in una calma irreale, il mondo circostante sembrava fermo, era così lontana dal caos cittadino che pure scorreva lì a pochi metri dove sedeva silenziosa.

La mia Zorki 4K

Ero in giro a sperimentare la resa sulla Leica M6 di un vecchio Jupiter 8, una lente 50mm russa a vite che avevo acquistato insieme ad una vecchia Zorki, russa anch'essa. Il crollo dell'Unione Sovietica aveva invaso ormai da svariati anni l'occidente di materiale fotografico russo. In particolare la Zorki era una copia sovietica delle Leica a vite così come le lenti che però, a dispetto della fragilità delle macchine, nella loro rozzezza e resa alquanto incostante permettevano di avere a poco prezzo un vetro di tutto rispetto. Ero intenzionato a verificare quanto di buono ci fosse in quel che si favoleggiava su questi vetri costruiti dai russi dopo aver invaso la Germania e letteralmente copiato la Leitz tedesca.

Dettaglio dello Jupiter 8

L'autunno era già inoltrato e l'inverno sembrava voler arrivare in anticipo, gli alberi intorno al Castello Sforzesco avevano creato un tappeto dai colori gialli e rossastri che pareva volesse ovattare i rumori provenienti dal traffico cittadino di una città frenetica come Milano anche all'ora di pranzo.
Avevo attraversato la grande piazza della fontana antistante il piazzale ma non avevo voglia di attraversare tutto il castello, così decisi di girare a sinistra e percorrere il breve percorso esterno delle mura. Subito dopo il mastio di destra, su una panchina, vidi una signora intenta a dare del cibo ai molti piccioni che le si erano radunati davanti. Scattai dapprima una foto d'insieme, la solitudine era sicuramente la prima sensazione che provai. 
Subito però mi avvicinai e cominciai a dialogare con signora che si mostrò molto contenta di scambiare quattro chiacchiere. Mi raccontò le sue passate vicissitudini di una vita che le pareva ormai lontana: era stata abbandonata dal marito tempo addietro ed ora viveva sola passando le giornate in una immensa solitudine. Avrebbe trascorso l'inverno a mare in Liguria presso parenti, infatti mi disse che aveva una figlia. Le piaceva venire nel parco e foraggiare i piccioni che l'accoglievano volentieri e l'ascoltavano più di quanto facessero gli esseri umani.
Quando andai via nel superarla non potei resistere dal girarmi verso di lei e la vidi ancora intenta nella sua attività, decisi di catturare ancora una volta quella immensa solitudine umana in uno scatto, l'ultimo.

La signora fu molto lusingata delle fotografie che gli feci e che avrei voluto lasciargli ma i giorni successivi non c'era più, pensai che fosse partita per il mare. Oggi mi rimane un ricordo estremamente triste di solitudine e speranza: la speranza di trovare un po di umano calore al di là di un parco autunnale silente ma foriero di rumorosi ricordi. Quel giorno fu anche l'ultima volta che utilizzai una lente russa su una Leica, ed oggi tutte le volte che guardo quelle ottiche e quelle macchine dell'ex Unione Sovietica non posso che ripensare a quell'incontro.

Piccola nota tecnica: Fotografie scattate con Leica M6, Jupiter 8 50mm f/2, Ilford FP4 Plus 125 pushed 200 ISO, sviluppato in Ilfosol S 1+9 7'30'' a 20°. Scansioni da negativo.